La giurisprudenza di merito e legittimità, in caso di ritardata consegna dell’immobile (come ad esempio per il rifiuto di consegnare l’immobile a fine locazione o per i ritardi nelle opere di riparazione) ha affermato quasi costantemente che il proprietario in questi casi subiva un danno in re ipsa, cioè che tale danno era automatico e quindi non necessitava di prove oppure era provabile per presunzioni, e quantificato nel probabile ed ipotetico costo mensile del canone di locazione per quell’immobile. La recente ordinanza 31233 del 04/12/2018 ha invece ribaltato tale principio, affermando che il danno debba in ogni caso essere provato. Si legge infatti che “l’assunto di un normale e sempre presumibile godimento diretto o indiretto (attraverso i frutti civili ricavabili dall’immobile) contrasta con l’esperienza collocabile nel notorio di case lasciate vuote e inutilizzate (pari in Italia secondo una recente indagine statistica a circa il 22,5% del totale)” e giunge al seguente principio di diritto:

«nel caso di ritardo nella consegna di immobile conseguente all’inadempimento di incarico d’opera professionale (progettazione edirezione dei lavori di costruzione) il danno subito dal proprietario non può ritenersi sussistente in re ipsa, atteso che tale concetto giunge ad identificare il danno risarcibile con la lesione della pretesa creditoria ed a configurare un vero e proprio danno punitivo, per il quale non vi è copertura normativa, ponendosi così in contrasto sia con l’insegnamento delle Sezioni Unite della S.C. (sent. n. 26972 del 2008) secondo il quale quel che rileva ai fini risarcitori è il danno  conseguenza, che deve essere allegato e provato, sia con l’ulteriore e più recente intervento nomofilattico (sent. n. 16601 del 2017) che ha riconosciuto la compatibilità del danno punitivo con l’ordinamento solo nel caso di espressa sua previsione normativa, in applicazione dell’art. 23 Cost.. Ne consegue che il danneggiato che ne chieda in giudizio il risarcimento è tenuto a provare di aver subito un’effettiva lesione del proprio patrimonio per non aver potuto locare ovvero per aver perso l’occasione di venderlo a prezzo conveniente o per aver sofferto altre situazioni pregiudizievoli, con valutazione rimessa al giudice del merito, che può al riguardo avvalersi di presunzioni gravi,
precise e concordanti, sulla base però di elementi indiziari (da allegare e provare da parte del preteso danneggiato) diversi dalla mera mancata disponibilità o godimento del bene, che possano sorreggere il convincimento sia dell’esistenza di tale danno conseguenza, sia del suo collegamento causale con l’evento lesivo».


 

ORDINANZA
sul ricorso iscritto al n. 2058/2017 R.G. proposto da
Renzaglia Fiorenzo, rappresentata e difesa dall’Avv. Prof. Stefano
Recchioni, con domicilio eletto presso il suo studio in Roma, corso
Trieste, n. 37;
– ricorrente –
contro
Santi Davide, Valentini Maria Luisa e Santi Gabriele, rappresentati e
difesi dagli Avv.ti Maurizio Della Costanza e Claudia Cardenà, con
domicilio eletto in Roma, via degli Scipioni, n. 268/A, presso lo studio
dell’Avv. Gianluca Caporossi;
Civile Ord. Sez. 3 Num. 31233 Anno 2018
Presidente: TRAVAGLINO GIACOMO
Relatore: IANNELLO EMILIO
Data pubblicazione: 04/12/2018
Corte di Cassazione – copia non ufficiale
– controricorrenti –
avverso la sentenza della Corte d’appello di Ancona, n. 1273/2016,
depositata il 4 novembre 2016;
Udita la relazione svolta nella camera di consiglio del 5 ottobre
2018 dal Consigliere Emilio Iannello.
Rilevato in fatto
1. Si ricava dalla narrativa della sentenza impugnata che:
— Davide Santi, Maria Luisa Valentini e Gabriele Santi convennero
in giudizio davanti al Tribunale di Pesaro, sezione distaccata di Fano,
il geom. Fiorenzo Renzaglia chiedendone la condanna al risarcimento
del danno per responsabilità professionale;
— dedussero di avergli conferito nell’anno 1991 l’incarico di
progettare e dirigere i lavori di costruzione di un fabbricato, del quale,
però, al termine dei lavori, non poterono ottenere l’abitabilità per
errori riguardanti sia la superficie occupata, sia la distanza dal
confine;
— lamentarono inoltre la mancanza della prevista rete
elettrosaldata sul massetto del pavimento del piano rialzato e del
primo piano, la realizzazione dell’isolamento termico in misura
inferiore a quella pattuita e la difformità dell’impianto fognario
rispetto al progetto assentito;
— instaurato il contraddittorio ed istruita la causa l’adito tribunale
dichiarò cessata la materia del contendere relativamente alle
questioni riguardanti l’errata rappresentazione delle superfici del lotto
edificabile e dell’ingombro del fabbricato, la violazione delle distanze
legali e l’inidoneità del progetto e della correlativa esecuzione al fine
di ottenere l’abitabilità dell’immobile; accolse per il resto la domanda,
condannando il convenuto al risarcimento dei danni in favore degli
attori per la mancanza della rete elettrosaldata nel massetto, per il
ridotto spessore dell’isolamento termoacustico nonché per il ritardo
nella consegna dell’opera, «tenuto conto del valore locativo del bene,
2
del tempo di presumibile completamento di quest’ultimo, all’epoca
allo stato grezzo, e del rilascio del certificato di abitabilità»;
— liquidò tali danni rispettivamente in C 639,00 (per la mancanza
della prevista rete elettrosaldata), C 549,00 (quale maggior costo
indebitamente sostenuto per l’isolamento termico) ed C 570,00 al
mese dal gennaio 1995 al maggio 2008 (per il ritardo nella consegna
dell’opera), importi “maggiorati di rivalutazione secondo gli indici
Istat prezzi al consumo ed interessi sino al maggio 2008, dei soli
interessi legali dal maggio 2008 al saldo”».
2. Con la sentenza in epigrafe, la Corte d’appello di Ancona ha
rigettato il gravame interposto dal soccombente, condannandolo alle
spese del grado.
3. Avverso tale decisione Fiorenzo Renzaglia propone ricorso per
cassazione sulla base di nove motivi, cui resistono gli intimati,
depositando controricorso.
Entrambe le parti hanno depositato memoria.
Considerato in diritto
………………………………………………
9. Con il nono motivo il ricorrente denuncia infine, in subordine,
«ingiustizia della sentenza per violazione e/o falsa applicazione (art.
360 co. 1 n. 3 c.p.c.) degli artt. 1218, 1223 e 1226 c.c. in ordine alle
modalità di quantificazione della responsabilità risarcitoria del
ricorrente rapportata al c.d. danno figurativo da mancato godimento
dell’immobile. Unitamente a nullità della sentenza per insufficienza
motivatoria (art. 360 co. 1 n. 4 in relazione all’art. 132 c.p.c.)».
Lamenta che la Corte d’appello ha erroneamente ritenuto congruo
parametro, per la liquidazione del danno, l’importo di un ipotetico
canone locativo per il periodo che va dal 1993 al 2008, rapportato al
1995 e rivalutato al 2008, con gli interessi, in mancanza di prova
alcuna, da parte dell’effettivo proprietario, di aver subito pregiudizio
per non aver potuto locare o altrimenti utilizzare il bene, ovvero per
aver perso l’occasione di venderlo a prezzo conveniente.
9. Il motivo è fondato.
La pronunzia impugnata — in assenza di alcun riferimento a
circostanze concrete relative, ad es., alle condizioni o all’ubicazione
dell’immobile, alle sue potenzialità di utilizzo e/o a occasioni di
concessione in locazione a terzi — conferma la decisione di primo
grado, che aveva riconosciuto il danno in questione nella misura sopra
14
indicata, limitandosi a richiamare il principio di diritto ripetutamente
affermato nella giurisprudenza di questa Corte secondo cui «il danno
subito dal proprietario è in re ipsa, raccordandosi al semplice fatto del
ritardo nella messa a disposizione o della perdita della disponibilità
del bene da parte del dominus ed all’impossibilità per costui di
conseguire l’utilità di regola ricavabile dal bene medesimo in relazione
alla natura normalmente fruttifera di esso; la quantificazione del
risarcimento ben può essere stabilita dal giudice sulla base di
elementi presuntivi semplici, facendo riferimento al cosiddetto danno
figurativo e, quindi, con riguardo al valore locativo del cespite» (v., ex
plurimis, tra le meno recenti, Cass. 16/04/2013, n. 9137;
28/05/2014, n. 11992; 08/05/2006, n. 10498; 11/02/2008, n.
3251; 10/02/2011, n. 3223).
Siffatto principio, tralaticiamente ribadito ancora di recente (v.
Cass. 28/08/2018, n. 21239; 06/08/2018, n. 20545; 24/04/2018, n.
10057; 19/04/2018, n. 9648; 05/03/2018, n. 5050; 31/01/2018, n.
2364), è stato posto ad oggetto di approfondita rivisitazione da Cass.
25/05/2018, n. 13071, che (in un caso in cui si verteva di pretesi
danni da occupazione abusiva di immobile e che pertanto poneva, sul
piano del relativo riconoscimento e liquidazione, questioni certamente
assimilabili a quella qui dibattuta, in entrambi i casi il danno
scaturendo dal mancato godimento e dalla indisponibilità
dell’immobile) ha espresso un motivato e qui pienamente condiviso
dissenso circa la possibilità — in un contesto ermeneutico ormai
consolidato (specie a seguito delle note sentenze c.d. di San Martino
del 2008) in senso contrario alla predicabilità, in ambito patrimoniale
come in quello non patrimoniale, di un danno in re ipsa — di
continuare invece a configurarlo nella particolare ipotesi predetta.
9.1. È invero ormai generalmente riconosciuta, almeno in via di
principio, l’antiteticità di un tale concetto — il quale, anche
letteralmente, postula la coincidenza del danno risarcibile con l’evento
15
dannoso (e al quale pure, in passato, non va dimenticato, si era fatto
ricorso, per giustificare la risarcibilità del danno biologico, attraverso
l’elaborazione del concetto, sovrapponibile, di danno-evento: v. Corte
cost. n. 184 del 1986) — rispetto al sistema di responsabilità civile,
fondato all’opposto sulla netta distinzione, ex artt. 1223 e 2056 cod.
civ., tra fatto illecito, contrattuale o extracontrattuale, produttivo del
danno e il danno stesso, da identificare nelle conseguenze
pregiudizievoli di quel fatto, nella loro duplice possibile fenomenologia
di «danno emergente» (danno «interno», che incide sul patrimonio
già esistente del soggetto) e di «lucro cessante» (che, di quel
patrimonio, è proiezione dinamica ed esterna), come tale
apprezzabile sia in ambito patrimoniale che non patrimoniale (v. Cass.
17/01/2018, n. 901, in motivazione, pag. 27): perdita-danno
emergente-sofferenza interiore, da un lato, e, dall’altro, mancato
guadagno-lucro cessante-danno alla persona nei suoi aspetti
esteriori/relazionali.
In ambito di responsabilità aquiliana ciò è definitivamente chiarito
dalle già richiamate sentenze c.d. di San Martino (Cass. Sez. U.
11/11/2008, nn. 26972-5) che, con riferimento al danno non
patrimoniale, ma alla stregua di considerazioni che prescindono da
tale natura del danno e dalle ragioni di antigiuridicità del fatto che lo
ha prodotto, evidenziano come il sistema fornisce una struttura
dell’illecito «articolata negli elementi costituiti dalla condotta, dal
nesso causale tra questa e l’evento dannoso, e dal danno che da
quello consegue (danno-conseguenza)», essendo l’evento dannoso
rappresentato dalla «lesione dell’interesse protetto». Pertanto quel
che rileva ai fini risarcitori è il danno-conseguenza, «che deve essere
allegato e provato»; non è accettabile la tesi che identifica il danno
con l’evento dannoso, ovvero come danno-evento, e parimenti da
disattendere è la tesi che colloca il danno appunto in re ipsa, perché
così «snatura la funzione del risarcimento, che verrebbe concesso non
16
in conseguenza dell’effettivo accertamento di un danno, ma quale
pena privata per un comportamento lesivo».
Può peraltro al riguardo rammentarsi che già Cass. Sez. U.
11/01/2008, n. 576, di poco anteriore, in materia di responsabilità da
trasfusione di sangue infetto, avvertiva che «il danno rileva … sotto
due profili diversi: come evento lesivo e come insieme di
conseguenze risarcibili, retto il primo dalla causalità materiale ed il
secondo da quella giuridica. Il danno oggetto dell’obbligazione
risarcitoria aquiliana è … esclusivamente il danno conseguenza del
fatto lesivo (di cui è un elemento l’evento lesivo). Se sussiste solo il
fatto lesivo, ma non vi è un danno-conseguenza, non vi è
l’obbligazione risarcitoria».
9.2. Anche con specifico riferimento all’ipotesi qui considerata,
tale evidente incompatibilità concettuale (tra danno in re ipsa e
sistema della responsabilità civile) era stata già rimarcata da Cass.
17/06/2013, n. 15111, che — richiamando pure un precedente
anteriore alle sentenze di San Martino (Cass. 11/01/2005, n. 378) —
in motivazione così osservava: «… il danno da occupazione abusiva di
immobile non può ritenersi sussistente in re ipsa e coincidente con
l’evento, che è viceversa un elemento del fatto produttivo del danno,
ma, ai sensi degli artt. 1223 e 2056 cod. civ., trattasi pur sempre di
un danno-conseguenza, sicché il danneggiato che ne chieda in
giudizio il risarcimento è tenuto a provare di aver subito un’effettiva
lesione del proprio patrimonio per non aver potuto ad esempio locare
o altrimenti direttamente e tempestivamente utilizzare il bene, ovvero
per aver perso l’occasione di venderlo a prezzo conveniente o per
aver sofferto altre situazioni pregiudizievoli, con valutazione rimessa
al giudice del merito, che può al riguardo peraltro pur sempre
avvalersi di presunzioni gravi, precise e concordanti. …
«L’impostazione del danno in re ipsa non è sostenibile. Ed invero
sostenere ciò significa affermare la sussistenza di una presunzione in
17
base alla quale, una volta verificatosi l’inadempimento, appartiene
alla regolarità causale la realizzazione del danno patrimoniale oggetto
della domanda risarcitoria, per cui la mancata conseguenza di tale
pregiudizio debba ritenersi come eccezionale. Così operando si pone a
carico del convenuto inadempiente l’onere della prova contraria
all’esistenza del danno in questione, senza che esso sia stato provato
dall’attore».
9.3. La portata di tali precedenti è stata però depotenziata dalle
successive pronunce, giunte a negare che gli stessi valgano a segnare
una effettiva sostanziale discontinuità con l’orientamento tradizionale.
Così Cass. 09/08/2016, n. 16670, nell’aderire LC94zri:Eitre
all’orientamento maggioritario, afferma che i due precedenti di Cass.
n. 378 del 2005 e n. 15111 del 2013 «nella sostanza non si
discostano da questa impostazione, benché precisando che non di
danno in re ipsa si tratta, ma di danno-conseguenza che va provato
dal danneggiato, il quale può al riguardo peraltro pur sempre
avvalersi di presunzioni». Nel caso esaminato la S.C. ha confermato
la decisione della Corte d’appello che, in riforma della sentenza di
primo grado, aveva accolto la domanda di risarcimento dei danni
conseguenti all’occupazione senza titolo di immobile (un vano
cantina); i soccombenti avevano dedotto violazione di legge e dei
principi in materia di onere della prova; la Cassazione ha ritenuto la
censura infondata, per essersi la Corte di merito conformata al
principio sopra enunciato, circa la configurabilità nella fattispecie di un
danno in re ipsa.
Sulla stessa linea si colloca Cass. 31/01/2018, n. 2342, che ha
confermato la decisione di merito predicativa di un danno in re ipsa
da occupazione di immobile senza titolo, richiamando i numerosi
precedenti in tal senso e rilevando che «non si discosta da questa
impostazione il precedente richiamato dai ricorrenti (Cass. n. 378 del
2005) il quale, sebbene precisi che non di danno in re ipsa si tratta,
18
ma di danno-conseguenza che va provato dal danneggiato, tuttavia,
nella sostanza, ritiene che questi possa pur sempre avvalersi di
presunzioni».
Espressione di un tale orientamento tendente a negare l’esistenza
di un contrasto o almeno a minimizzarne la portata può considerarsi
anche Cass. 15/12/2016, n. 25898, che però si pronuncia in una
fattispecie inversa. In quel caso il giudice di merito aveva rigettato la
pretesa risarcitoria del danno da ritardato rilascio di immobile
concesso in comodato rilevando che: a) non si tratta di danno in re
ipsa; b) la ricorrente avrebbe dovuto allegare ed anche provare
l’esistenza di un pregiudizio. La Corte di cassazione ha confermato
tale decisione ma ha respinto la censura che ne denunciava il
contrasto con l’indirizzo maggioritario predicativo del danno in re
ipsa; ha ritenuto, infatti, insussistente tale contrasto, osservando che
«il riferimento al danno in re ipsa va inteso in senso descrittivo, di
normale inerenza del pregiudizio all’impossibilità stessa di disporre
del bene, e non fa comunque venir meno l’onere per l’attore in primo
luogo quanto meno di allegare, ed anche di provare — con l’ausilio
delle presunzioni — il fatto base da cui il pregiudizio discende ovvero
il fatto che, ove il proprietario comodante avesse immediatamente
recuperato la disponibilità della casa l’avrebbe effettivamente
impiegata per una finalità produttiva, fosse essa il godimento diretto
o la locazione».
Nello stesso senso si esprime sostanzialmente anche Cass.
21/08/2018, n. 20859, che, pure in premessa dà espressamente atto
dell’esistenza di orientamenti contrastanti in giurisprudenza, ma
sembra poi far propria la valutazione secondo la quale si tratterebbe
di contrasto «soltanto apparente in quanto, la lesione del danno in re
ipsa non prescinde dal predetto accertamento, ma si limita ad
affidarlo alla prova logica presuntiva», finendo nel caso di specie con
la conferma della decisione di merito che aveva riconosciuto il danno,
19
sul rilievo che essa aveva compiuto in tal senso un positivo
accertamento «mediante prova presuntiva, sulla base di elementi
oggettivi e concordi, quali la lunga durata della occupazione abusiva, i
vari tentativi di recuperare l’immobile … nonché le caratteristiche del
bene stesso».
In termini anche il precedente, ivi citato, di Cass. 27/06/2016, n.
13224, secondo cui «il contrasto giurisprudenziale deve ritenersi
soltanto apparente in quanto, la tesi del danno in re ipsa non
prescinde dal predetto accertamento, ma si limita ad affidarlo alla
prova logica presuntiva, ritenendo che la allegazione da parte del
danneggiato di determinate caratteristiche materiali e specifiche
qualità giuridiche del bene immobile, consentano di pervenire alla
prova — fondata su una ragionevole certezza, la cui rispondenza
logica deve essere verificata alla stregua del criterio probabilistico
dell’id quod plerumque accidit — che “quel tipo di bene immobile”
sarebbe stato destinato ad un impiego fruttifero».
A ben vedere tutti i precedenti sopra menzionati postulano una
sostanziale uniformità della giurisprudenza in materia e così, a loro
volta, finiscono con il dare continuità all’orientamento tradizionale,
pur facendone applicazione per confermare la correttezza di decisioni
di merito che sul punto avevano dato soluzioni diverse e in alcuni casi
opposte: ed infatti, nel caso, ad es., di Cass. n. 16670 del 2016 si
ritiene che il giudice di merito (che aveva accolto la pretesa
risarcitoria) abbia correttamente giudicato in applicazione del
principio del danno in re ipsa, ritenendo che lo stesso non sia in
sostanza contrastato dai precedenti del 2005 e del 2013; in quello di
Cass. n. 25898 del 2016 si ritiene altresì conforme a
quell’orientamento la decisione della Corte di merito che però aveva
negato il chiesto risarcimento in mancanza di allegazione e prova dei
pregiudizi subiti (la Corte di merito, come visto, aveva anche negato
che potesse parlarsi di danno in re ipsa), e a tanto si giunge
20
rileggendo quel principio alla luce dei precedenti del 2005 e del 2013,
come se questi valessero solo a meglio illustrare quel principio non
anche a contrastarlo.
Tali esiti ambigui e potenzialmente contraddittori mostrano la
debolezza di fondo dell’operazione compiuta, la quale sta proprio nel
tentativo di conciliare impostazioni in realtà radicalmente divergenti.
In effetti, come osserva condivisibilmente Cass. n. 13071 del
2018, «non emerge dagli arresti citati del 2005 e del 2013 una linea
compatibile con quella maggioritaria», essendo in essi chiaramente
evidenziato come «il danno in re ipsa non possa sussistere in luogo
del danno conseguenza, perché altrimenti verrebbe a crearsi una
presunzione che non solo esonera chi sarebbe danneggiato dall’onere
probatorio (onere per il cui adempimento, qui come in ogni fattispecie
per cui non sia prescritta una determinata forma ad probationem, chi
lamenta il danno può avvalersi dello strumento della presunzione
semplice), ma altresì impone al preteso danneggiante, per
“sciogliersi” dall’avversa pretesa, di fornire una prova negativa».
9.4. Si verifica dunque anche in questo caso quel rischio di
confusione semantica e ambiguità esegetica efficacemente segnalato
— seppur con riferimento ad altro tema (processuale: distinzione tra
mutatio ed emendatio libelli) — da Cass. Sez. U. 15/06/2015, n.
12310, laddove essa avvertiva (§ 2c, pag. 14) che «l’utilizzo di
formule brevi e icastiche può servire a semplificare la comunicazione
ed a favorire il richiamo convenzionale di concetti, deve tuttavia
trattarsi di formule che abbiano, appunto, un indiscusso retroterra
concettuale, essendosene preventivamente stabilito in modo
convenzionale ed inequivoco il significato, mentre il richiamo a
termini il cui significato resta oscuro serve solo ad aumentare la
confusione ed a favorire l’ambiguità concettuale nonché la pigrizia
esegetica, inducendo a cedere alla tentazione sbrigativa e autoritaria
della “formuletta” che, ripetuta acriticamente ed in rapporto a
21
situazioni eterogenee, finirebbe in ogni caso, perfino se preceduta da
una seria e condivisa ricognizione di senso, per usurarsi».
Ebbene, nel caso che occupa, il rischio che si corre perpetuando
l’uso della locuzione «danno in re ipsa» (poco o nulla attenuato dalle
precisazioni che a volte, non sempre, !q. affiancano) sta
evidentemente nel favorire un corto-circuito logico che porta a
sovrapporre due costruzioni concettuali in realtà profondamente
diverse: da un lato, la presunzione del danno direttamente
discendente, omisso medio, dal mancato godimento/disponibilità
dell’immobile (la «normale inerenza del pregiudizio all’impossibilità
stessa di disporre del bene» di cui parla Cass. n. 26858 del 2016);
dall’altro, la possibilità di provare che da tale danno-evento discenda
un danno-conseguenza quantificabile nella perdita di occasioni di
vendita o sfruttamento locativo, anche per mezzo di presunzioni
semplici, ex artt. 2727 e 2729 cod. civ., sulla base però di elementi
indiziari (da allegare e provare da parte del preteso danneggiato)
diversi dalla mera perduta (o ritardata) disponibilità del bene, che
possano sorreggere il convincimento sia dell’esistenza di tale dannoconseguenza,
sia, ovviamente, Git suo collegamento causale con
l’evento lesivo.
Se è vero infatti che, come afferma Cass. n. 15111 del 2013, chi
chiede il risarcimento del danno in questione, per assolvere all’onere
della prova su di lui incombente ex art. 2697 cod. civ., può
certamente avvalersi di presunzioni (che siano gravi, precise e
concordanti), non è però meno vero che egli deve, a tal fine, pur
sempre prima allegare e poi dimostrare la sussistenza di elementi
indiziari e circostanze fattuali (diversi dalla mera indisponibilità
dell’immobile che costituisce il fatto lesivo) idonei a fondare la
presunzione che da quella perdita egli abbia tratto un pregiudizio
economico.
In altre parole, una cosa è dire che il danno è presunto (con
22
inversione dell’onere della prova, addossandosi al danneggiante
quello di provare il contrario), altra è dire che può essere provato per
presunzioni (v. ancora, in termini, Cass. n. 15111 del 2013, in
motivazione, pag. 7, § 4.2).
La «presunzione» del danno, in quest’ultima corretta prospettiva,
è solo il risultato finale della valutazione da compiere ed equivale a
dire «convincimento basato su ragionamento probatorio di tipo
presuntivo, ex art. 2729 cod. civ.», il quale però non può mancare e
deve poter essere verificabile nei termini che saranno appresso
esposti. Nel senso usato invece secondo l’orientamento tradizionale,
mancando sovente ogni riferimento a tale necessario passaggio logico
intermedio, esso acquista il diverso significato di mera regola di
giudizio che solleva (il «presunto» danneggiato) dall’onere di fornire
elementi indiziari (diversi rispetto al mero fatto lesivo) che possano
giustificare quel convincimento e pone piuttosto l’onere della prova
contraria a carico del «presunto» danneggiante.
Può certo ammettersi che, in taluni casi, specie di danno
emergente (es. la riduzione del valore di mercato del bene leso), la
«vicinanza» causale del danno all’evento dannoso è tale da potersi
ricavare la prova del primo dalla stessa dimostrazione del secondo.
Ciò però lascia intatta la possibilità e la necessità di distinguere i
due momenti: da un lato la lesione dell’interesse protetto (o della
pretesa creditoria in ambito contrattuale), dall’altro la conseguenza
pregiudizievole che ne deriva (cfr. Cass. 26/09/2018, n. 22824, che,
in ipotesi di danno da inquinamento delle falde acquifere presenti nel
fondo di proprietà dell’attore in seguito alla fuoriuscita di carburante
dalle cisterne della stazione di servizio con esso confinante, ha
rilevato che la prova del fatto dannoso ben potesse valere anche a
dimostrare l’esistenza di un danno conseguenza, quale «pregiudizio
incidente sul valore e sulle potenzialità economiche del bene della vita
di cui si lamenta il danneggiamento», suscettibile di valutazione
23
equitativa da parametrarsi nella «differenza tra il valore commerciale
del terreno prima dell’inquinamento e quello stimabile
successivamente ad esso». In tale occasione la S.C. ha
espressamente escluso che tale operazione postuli un danno in re
ipsa e confonda «il danno evento o evento lesivo … con il danno
conseguenza, distinto presupposto del credito risarcitorio, che
definisce, a valle, la perdita o il mancato guadagno conseguente a
quella lesione»; «il dimostrato inquinamento delle falde acquifere è
infatti — essa ha osservato — indubitabilmente esso stesso un danno
conseguenza, comportando una grave ed evidente compromissione di
una risorsa preziosa del terreno, suscettibile di valutazione
economica»)
Non è questa però certamente l’ipotesi qui considerata, nella
quale, trattandosi evidentemente non di danno emergente, ma di
lucro cessante, è maggiore la distanza logica e fattuale tra perdita
della disponibilità dell’immobile e perdita di potenzialità di
sfruttamento locativo dello stesso. Ed è proprio questa distanza che
occorre coprire — con prove, anche presuntive, ma pur sempre tali —
affinché il convincimento eventualmente positivo non risulti fondato
sul nulla.
Affermare dunque in tale ipotesi che il fatto stesso della mancata
disponibilità dell’immobile di per sé legittimi — in assenza di alcuna
altra allegazione circa le oggettive possibilità e le concrete occasioni
di sfruttamento del bene — la presunzione della sussistenza, sempre
e comunque, di un pregiudizio patrimoniale quantificabile sulla base
del valore locativo, comporta, da un lato, la violazione delle regole
che, desunte dalle citate norme codicistiche, presiedono alla
valutazione della prova per presunzioni; dall’altro, e per l’effetto,
finiscono con il far coincidere il danno risarcibile con l’evento stesso di
danno, così attribuendo al risarcimento una funzione non più
compensativa ma sanzionatoria, in assenza di copertura normativa.
24
9.4.1. Sotto il primo profilo giova rammentare che, ai sensi
dell’art. 2727 cod civ., le presunzioni c.d. semplici «sono le
conseguenze che … il giudice trae da un fatto noto per risalire a un
fatto ignorato».
A norma dell’art. 2729, comma secondo, cod. civ., poi, tali
presunzioni «sono lasciate alla prudenza del giudice, il quale non deve
ammettere che presunzioni gravi, precise e concordanti».
Secondo pacifico insegnamento, in tali termini intesa la
presunzione semplice costituisce un mezzo di prova critica, in
relazione al quale è rimessa al prudente apprezzamento del giudice la
formulazione dell’inferenza dal fatto noto a quello ignoto. Il
collegamento inferenziale tra fatto noto e fatto da provare, ancorché
discrezionale, non è comunque svincolato dal rispetto delle regole
logiche e conoscitive, dovendo il giudice accuratamente motivare il
proprio ragionamento al fine di consentire il necessario controllo sulla
razionalità del procedimento deduttivo.
Il valore conoscitivo del ragionamento presuntivo è dunque
determinato dai criteri utilizzati per operare l’inferenza dal fatto noto
a quello ignoto: tali criteri sono costituiti dalle massime di esperienza
che il giudice utilizza ai sensi dell’art. 115 cod. proc. civ.. La dottrina
sottolinea il carattere ampio e indefinito del concetto di massima di
esperienza e riconduce sotto tale espressione ipotesi tra loro assai
eterogenee e dotate di differenti gradi di utilità conoscitiva, quali ad
esempio «leggi naturali e logiche, nozioni scientifiche,
generalizzazioni empiriche, regole del senso comune, frequenze
statistiche e nozioni volgarizzate e superficiali di psicologia,
economia, sociologia, etc.» di cui il giudice può servirsi per formulare
inferenze e valutazioni nell’ambito del giudizio di fatto.
A un siffatto ragionamento inferenziale tuttavia può accedersi,
come detto, solo in presenza di fatti noti gravi, precisi e concordanti, i
quali rappresentano i presupposti per il valido impiego del
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ragionamento inferenziale, escludendo che, in loro assenza, le
presunzioni stesse possano fornire al giudice la piena prova del fatto
ignoto.
In particolare, la gravità implica necessità di un elevato grado di
attendibilità della presunzione in relazione al convincimento che essa
è in grado di produrre in capo al giudice; ciò non significa certo che
l’affermazione dell’esistenza del fatto ignorato debba desumersi dal
fatto noto con assoluta certezza, ma è pur sempre necessario almeno
un grado di probabilità superiore a quello che spetta all’opposta tesi
della sua inesistenza; ciò che del resto è coerente con la struttura del
ragionamento presuntivo e con la natura delle massime d’esperienza
su cui esso si fonda: salvo i casi eccezionali in cui esse corrispondano
a leggi naturali o scientifiche, le massime di esperienza non sono,
infatti, di regola idonee a conferire certezza assoluta alla conoscenza
del fatto ignorato, esprimendo per lo più una connessione meramente
probabile fra questo ed il fatto noto.
Il requisito della precisione evoca a sua volta un concetto di non
equivocità, valendo ad escludere la validità del ragionamento
presuntivo ove da esso derivino conclusioni contraddittorie e non
univocamente riferibili al fatto da provare. Analogamente a quanto
detto circa il requisito della gravità, la conseguenza circa l’esistenza
del factum probandum non deve necessariamente configurarsi come
l’unica possibile, essendo sufficiente che essa sia la più probabile tra
quelle che possono derivare dal fatto noto.
Tale requisito della precisione impone tuttavia che i fatti noti non
siano vaghi, ma ben determinati (v. Cass. 24/02/2004, n. 3646;
22/03/2001, n. 4168). Inoltre, occorre che le presunzioni non
costituiscano una mera enunciazione di criteri astratti o di generiche
regole di esperienza (Cass. 14/07/2004, n. 13054).
Le argomentazioni del giudice devono infine essere immuni da
incoerenza logica e da omissioni vertenti su elementi decisivi che
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abbiano formato oggetto di rituali deduzioni.
Come più volte affermato, infatti, affinché l’apprezzamento
dell’efficacia sintomatica dei fatti noti sfugga al sindacato del giudice
di legittimità, è necessario, non solo che essi vengano considerati sia
singolarmente che nella loro globalità, all’esito di un giudizio di
sintesi, per come testé esplicitato, ma anche che del convincimento
così maturato il decidente dia una motivazione adeguata e corretta
sotto il profilo logico e giuridico (cfr. Cass. 28/10/2014, n. 22801;
Cass. 06/06/2012, n. 9108).
Il che, specularmente, comporta la sindacabilità di una
valutazione che abbia pretermesso, senza darne ragione, uno o più
fattori aventi, per condivisibili massime di esperienza, un’oggettiva
portata indiziante (v. Cass. 13/11/2015, n. 23201).
9.4.2. Orbene, l’affermazione (su cui poggia la giurisprudenza
maggioritaria) secondo cui dalla indisponibilità o dal mancato
godimento di un immobile consegue sempre, secondo «normale
inerenza», il mancato guadagno dei frutti ricavabile secondo il valore
locativo, costituisce frutto di un assioma piuttosto che di un
ragionamento presuntivo che abbia i requisiti suindicati, rimandando
essa ad un criterio inferenziale vago e oggettivamente non
verificabile, in mancanza di una massima di esperienza che possa ad
esso fornire copertura logica solida e coerente.
Ed infatti l’assunto di un normale e sempre presumibile godimento
diretto o indiretto (attraverso i frutti civili ricavabili dall’immobile)
contrasta sia con l’esperienza collocabile nel notorio di case lasciate
vuote e inutilizzate (pari in Italia secondo una recente indagine
statistica a circa il 22,5% del totale), sia — come nota ancora Cass.
n. 13071 del 2018 — con un dato ricavabile dallo stesso ordinamento,
la previsione cioè dell’istituto dell’usucapione che, consentendo come
noto l’acquisto a titolo originario della proprietà o di altro diritto reale
sull’immobile per il possesso continuato per venti anni (art. 1158 cod.
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civ.), con la conseguente estinzione (o limitazione) del diritto in capo
al precedente proprietario, «dimostra ictu ()culi che non sempre il
proprietario mette a frutto il suo immobile, non traendone così per
sua scelta alcun guadagno».
9.4.3. Varrà del resto ancora sul punto osservare che in altro
ambito argomentativo — quello del maggior danno ex art. 1591 cod.
civ. dovuto dal conduttore per mancata restituzione dell’immobile
locato — la giurisprudenza di questa Corte ha sempre costantemente
affermato che tale maggior danno deve essere concretamente
provato dal locatore, richiedendosi la specifica prova dell’esistenza del
danno medesimo, in rapporto alle condizioni dell’immobile, alla sua
ubicazione e alle possibilità di nuova sua utilizzazione, nonché
all’esistenza di soggetti seriamente disposti ad assicurarsene il
godimento dietro corrispettivo, dalle quali emerga il verificarsi di
un’effettiva lesione del patrimonio (Cass. 12/12/2008, n. 29202;
16/09/2008, n. 23720). Costituisce, del resto, affermazione risalente
e pacifica che, in via generale, la prova del maggior danno non sorge
automaticamente, sulla base del valore locativo presumibilmente
ricavabile dalla astratta configurabilità di ipotesi di locazione o vendita
del bene (v. ex plurimis Cass. 03/02/2011, n. 2552; 27/03/2007, n.
7499; 28/01/2002, n. 993; 04/06/1997, n. 4968), ma richiede la
specifica dimostrazione di un’effettiva lesione del patrimonio del
locatore, consistente nel non aver potuto dare in locazione il bene per
un canone più elevato, nel non averlo potuto utilizzare direttamente e
tempestivamente, nella perdita di occasioni di vendita ad un prezzo
conveniente od in altre analoghe situazioni pregiudizievoli (Cass.
07/02/2006, n. 2525; 13/06/2006, n. 13653; 26/09/2006, n.
20829), con la precisazione che l’onere di detta prova è a carico del
locatore, tenuto a dar conto dell’esistenza di ben determinate
proposte di locazione o d’acquisto e di concreti propositi di
utilizzazione (Cass. 06/06/1995, n. 6359; 10/02/1999, n. 1133; n.
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4864 del 14/04/2000; 01/07/2002, n. 9545; 13/07/2005, n. 14753).
Ebbene, non si vede ragione per la quale analogo rigore valutativo
non debba essere applicato nel caso di danno da lucro cessante
derivante dalla mancata disponibilità dell’immobile per ragioni diverse
da quelle legate alla mancata restituzione al termine di un rapporto
locativo. Può anzi rilevarsi che, mentre in quest’ultimo caso la stessa
preesistenza di un rapporto locativo giustifica la presunzione di
concrete potenzialità di sfruttamento di ugual genere dell’immobile
(riguardando la specifica prova richiesta solo l’allegazione della
perduta possibilità di fruirne a condizioni più vantaggiose), negli altri
casi, tra i quali quello che qui occupa, il fatto dannoso non porta con
sé analogo significato indiziario, sicché a fortiori si rende necessario
un vaglio attento delle effettive e concrete potenzialità di
sfruttamento dell’immobile.
9.4.4. In mancanza di tale allegazione e prova il riconoscimento di
un danno risarcibile comporta — e si viene così al secondo dei profili
sopra evidenziati (§ 9.4, ultimo capoverso) — la sovrapposizione tra
danno-evento e danno-conseguenza, con il che, come
condivisibilmente nota Cass. n. 13071 del 2018, si trasmoda dal
«tradizionale danno compensativo/ripristinatorio» a quello del
risarcimento con funzione punitiva in contrasto anche con l’ulteriore,
recentissimo intervento nomofilattico di Cass. Sez. U. 05/07/2017, n.
16601, che ha riconosciuto la compatibilità del danno punitivo con
l’ordinamento ponendo però come limite l’espressa sua previsione
normativa, in applicazione dell’art. 23 Cost.. Ogni elemento
sanzionatorio che venga a sostituire — in ultima analisi — quello
rìsarcitorio non può, dunque, derivare da volontà del giudicante,
bensì esige riserva di legge.
9.5. Deve in conclusione affermarsi il seguente principio di diritto:
«nel caso di ritardo nella consegna di immobile conseguente
all’inadempimento di incarico d’opera professionale (progettazione e
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direzione dei lavori di costruzione) il danno subito dal proprietario non
può ritenersi sussistente in re ipsa, atteso che tale concetto giunge ad
identificare il danno risarcibile con la lesione della pretesa creditoria
ed a configurare un vero e proprio danno punitivo, per il quale non vi
è copertura normativa, ponendosi così in contrasto sia con
l’insegnamento delle Sezioni Unite della S.C. (sent. n. 26972 del
2008) secondo il quale quel che rileva ai fini risarcitori è il dannoconseguenza,
che deve essere allegato e provato, sia con l’ulteriore e
più recente intervento nomofilattico (sent. n. 16601 del 2017) che ha
riconosciuto la compatibilità del danno punitivo con l’ordinamento solo
nel caso di espressa sua previsione normativa, in applicazione
dell’art. 23 Cost.. Ne consegue che il danneggiato che ne chieda in
giudizio il risarcimento è tenuto a provare di aver subito un’effettiva
lesione del proprio patrimonio per non aver potuto locare ovvero per
aver perso l’occasione di venderlo a prezzo conveniente o per aver
sofferto altre situazioni pregiudizievoli, con valutazione rimessa al
giudice del merito, che può al riguardo avvalersi di presunzioni gravi,
precise e concordanti, sulla base però di elementi indiziari (da
allegare e provare da parte del preteso danneggiato) diversi dalla
mera mancata disponibilità o godimento del bene, che possano
sorreggere il convincimento sia dell’esistenza di tale dannoconseguenza,
sia del suo collegamento causale con l’evento lesivo».
10. La sentenza impugnata deve essere pertanto cassata nella
parte in cui conferma la condanna del Renzaglia a risarcire le
controparti per l’asserito danno da ritardo nella consegna dell’opera,
con rinvio ad altra sezione della corte territoriale che, esclusa la
configurabilità di un danno in re ipsa, dovrà accertare se gli attori
(appellati) hanno allegato e provato il danno-conseguenza che
potrebbe essere loro derivato da tale ritardata consegna, come — si
indica meramente per esempio dovendosi il giudice di merito
rapportare alle effettive allegazioni compiute — la loro intenzione
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concreta di concederlo in locazione se ne avessero avuto la
disponibilità, o l’avere sostenuto spese che altrimenti non avrebbe
dovuto affrontare per renderlo fruibile a tale scopo, aver perso
l’occasione di venderlo a prezzo conveniente o per aver sofferto altre
situazioni pregiudizievoli.
Al giudice di rinvio va anche demandato il regolamento delle
spese del presente giudizio di legittimità.
P.Q.M.
accoglie il nono motivo, nei termini di cui in motivazione; rigetta il
primo e il quinto; dichiara inammissibili i rimanenti; cassa la sentenza
in relazione al motivo accolto; rinvia alla Corte d’appello di Ancona in
diversa composizione, cui demanda di provvedere anche sulle spese
del giudizio di legittimità.
Così deciso il 5/10/2018