Succede spesso nell’attività di recupero crediti di doversi trovare nella necessità, non avendo il debitore altre beni, di procedere ad un pignoramento immobiliare. Molte volte l’immobile però, risulta cointestato al coniuge in comunione legale dei beni e quindi ci si chiede quale sia la procedura da seguire e quale sia la sorte della quota del coniuge non debitore. Per i beni in comunione ordinaria infatti il codice prevede un procedimento apposito (599 e seguenti cpc) volto alla divisione e alla separazione della quota del contitolare. Non però nella comunione legale che secondo la giurisprudenza ormai pacifica viene considerata come “senza quote”: ciò significa che i coniugi non sono proprietari “idealmente” di una quota del bene aggredito, ma sono contitolari dei beni comuni nella loro interezza. Ribadendo questo principio Cass. 6230/2016 ha stabilito il principio per cui il creditore può pignorare e procedere alla vendita forzosa dell’intero immobile in comunione senza necessità di “staccare” alcuna quota. Al coniuge non debitore, spetta però la metà del ricavato dalla vendita. Questo il principio contenuto nella sentenza: “Per il debito di uno dei coniugi, correttamente è sottoposto a pignoramento l’intero bene, pure se in parte compreso nella comunione legale con l’altro coniuge, con conseguente esclusione di ogni irritualità o illegittimità degli atti tutti della procedura, fino all’aggiudicazione ed al trasferimento di quello in favore di terzi compresi, nonché con esclusione della fondatezza della pretesa del debitore esecutato e dell’opponente originaria non solo di caducare tali atti, ma pure di separare di quel bene parti o quote o di conseguire dalla procedura esiti diversi dalla vendita per l’intero, salva la corresponsione al coniuge non debitore, in sede di distribuzione, della metà del ricavato lordo di essa, dovuta in dipendenza dello scioglimento, avutosi sia pure in via eccezionale limitatamente a quel bene, ma per esigenze di giustizia ed all’atto del decreto di trasferimento, della comunione legale in parola“.
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Avv. Paolo Baliani
Sono iscritto all’albo degli avvocati ormai dal 1998 e opero prevalentemente in Umbria nei Tribunali di Spoleto, Perugia e Terni. Per una mia precisa inclinazione caratteriale, tendo a prediligere i rapporti personali con i clienti, affrontando le varie questioni sotto ogni aspetto e cercando di trovare soluzioni stragiudiziali e compositive se possibili, non sottovalutando il lato umano dei problemi che mi si presentano. (continua)
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Cosa vuol dire «grande avvocato»? Vuol dire avvocato utile ai giudici per aiutarli a decidere secondo giustizia, utile al cliente per aiutarlo a far valere le proprie ragioni. Utile è quell’avvocato che parla lo stretto necessario, che scrive chiaro e conciso, che non ingombra l’udienza con la sua invadente personalità, che non annoia i giudici con la sua prolissità e non li mette in sospetto con la sua sottigliezza: proprio il contrario, dunque, di quello che certo pubblico intende per «grande avvocato»
Piero Calamandrei